"Il Faro era allora una torre argentea, nebulosa, con un occhio giallo che si apriva all’improvviso e dolcemente la sera”
“(Il Faro) torreggiava, nudo e diritto, scintillando, bianco e nero e si vedevano già le onde che si frangevano in bianche schegge come frammenti di vetro sugli scogli”
Da “Gita al Faro” (To the lighthouse) di Virginia Woolf (1882-1941)
Quella dei fari è una storia affascinante che si perde nella notte dei tempi e va di pari passo con la storia della navigazione.
L’uomo antico ha scoperto molto presto che poteva muoversi agevolmente attraverso l’elemento liquido, forse passando dai laghi ai fiumi e da questi al mare, inizialmente impaurito da quella vastità, e limitandosi quindi ad una navigazione diurna e costiera, forse con delle fragili imbarcazioni, ma ha imparato presto che poteva spostarsi facilmente per raggiungere altre coste trasportando merci e persone, ma all’inizio non ha punti di riferimento per muoversi al buio, e l’unica soluzione è trovare rifugio in qualche cala sicura.
Si hanno disegni rupestri di barche risalenti all’età del ferro, forse solo piccole imbarcazioni di giunchi, ma già nel 2500 a.c. in due tombe egiziane a Saqqara si trovano rappresentate delle barche in legno con un ingegnoso sistema di alberatura che poggiava sui bordi, così da rendere più leggera l’imbarcazione.
Ma è con la comparsa dei Fenici sul mare intorno al 1200 A.C. , un’ antica popolazione una volta divisa in tribù, che si era finalmente unita in un’unica nazione, e con l’espandersi di questo quasi misterioso popolo di navigatori che si affaccia sul Mediterraneo da una regione costiera divisa oggi tra Libano, Siria ed Israele, che le vie del mare si ampliano e si allargano, che vengono costruite navi più grandi utilizzando il prezioso legno del cedro che cresceva abbondante sulla loro terra. In realtà nessuno conosce il vero nome di questa popolazione, sono stati i Greci a battezzarli “öïéíßêüí” (phoinikes), cioè, “tinti di rosso”, dal colore di quelle stoffe color porpora, ricavato dal succo di una conchiglia, che commerciavano, insieme a vino, olio ed al prezioso legno di cedro per tutto il Mediterraneo ed oltre.
Questi marinai dell’antichità hanno avuto l’ardire di oltrepassare le Colonne d’Ercole, quella barriera oltre la quale nessuno prima di loro si era avventurato, fermato dal terrore che al di là si trovassero mostri marini e vortici spaventosi che avrebbero inghiottito uomini e barche, ma i Fenici, superando questi timori ancestrali, si sono spinti fino alle coste meridionali dell’Inghilterra.
La navigazione all’inizio rimane comunque prevalentemente costiera e diurna, ma la necessità di potersi muoversi sempre più spesso porta l’uomo a navigare anche di notte e impara ad orientarsi con le stelle e con rudimentali strumenti nautici, ma questo non basta ad evitare scogli affioranti, banchi di sabbia e altri pericoli nelle notti scure, ed ecco la necessità di illuminare la notte con i primi “fari”, che non sono altro che falò di legna accatastata, situati nei luoghi più pericolosi per segnalare la rotta ai naviganti. Questi primi fuochi necessitano di continua cura, devono restare accesi tutta la notte, il buio significa pericolo e morte, ci vogliono uomini che si alternino per la ricerca del combustibile e per tenerli accesi, sono vitali. Forse i primi “guardiani del faro” sono schiavi, che raccolgono e accatastano legname che poi di notte alimentano continuamente la pira che non deve spegnersi mai.
Questi primi fuochi colpiscono già l’immaginazione e vengono citati nella letteratura e nel mito : Omero (VIII secolo A.C.), nel XIX libro dell’Iliade, paragona lo scudo sfavillante di Achille ad uno di questi fuochi :
“[Achille] s’imbracciò lo scudo
Che immenso e saldo di lontan splendea
Come luna, o qual fuoco ai naviganti
Sovr’alta apparso solitaria cima
Quando, lontani da’ lor cari, il vento
Li travaglia nel mar ……. “
(vv. 373-378)
Anche altri poeti classici dell'’antichità, come Ovidio e Virgilio, hanno rappresentato il faro come un mito ispirandosi alla leggenda di Ero e Leandro, gli amanti segreti. Ero, la mitica sacerdotessa consacrata ad Afrodite, aspettava ogni notte il suo amante sulla riva dell’'Ellesponto, che lui attraversava a nuoto per raggiungerla, guidandolo con una fiaccola accesa, il faro appunto, ma una notte il vento spense la luce e Leandro si perse tra le nere acque, ed Ero, disperata, si gettò nei flutti per seguire la sua sorte. Ecco la prima rappresentazione dell'’immagine del fuoco, della luce che illumina il mare per guidare chi lo solca nell’oscurità della notte.
Così nell’'antichità, tra mito e leggenda, nasce questa guida ai naviganti, e con l'’evolversi della navigazione commerciale vengono costruiti i primi porti sulle rotte più trafficate e con loro i primi veri fari che all’'inizio non erano altro che rudimentali strutture in legno o ferro, o altri sistemi simili, che per mezzo di carrucole alzavano un braciere metallico, dentro la quale veniva ammassato il combustibile. Stranamente fino alla costruzione dei più grandi fari dell’'antichità non si hanno notizie di fari imponenti, è solo intorno al 300 A.C. che si vedono sorgere le due più grandi strutture per le quali si sono versate fiumi di inchiostro e che rimarranno per secoli l'’unico esempio di fari monumentali.
Uno dei più noti, una delle sette meraviglie del mondo, è il Colosso di Rodi, un’enorme statua antropomorfa che rappresentava Elios, il dio del sole, con un braciere acceso in una mano, alta almeno 70 cubiti, circa 32 metri, secondo la descrizione di Plinio il Vecchio, che, però, non può averlo mai visto, essendo vissuto secoli più tardi. E’ noto che lo storico morì durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.c., pare però che lo studioso romano avesse letto durante la sua vita almeno 2000 volumi, molti dei quali di storia greca, ed è possibile che ne abbia letto la descrizione in qualcuno di essi. La tradizione racconta che la statua fosse costruita a cavallo dei due bracci del porto, con le navi che passavano tra le sue gambe, ma in realtà la sua esatta collocazione rimane un mistero. Questo colosso era stata costruita intorno al 290 A.C. da Cario di Lindos che aveva ricoperto con piastre di piombo una struttura metallica, altre fonti dicono fosse in pietra ricoperta di piombo, una metodologia piuttosto avveniristica per quei tempi, e si dice che il suo architetto non ne vide la fine, si suicidò per misteriosi motivi e non si sa chi portò a compimento l’opera. Questo colosso ebbe vita breve, 80 anni dopo la sua costruzione crollò all’altezza delle ginocchia, che presto seguirono la sorte del resto del corpo, a causa di un terremoto e alcune fonti raccontano che nel VII secolo d.c. i suoi resti furono fonte di commercio tra mercanti ebrei ed arabi e pare che alcune di queste parti finirono in Italia e furono utilizzate per la costruzione della famosa statua di San Carlo Borromeo ad Arona.
Questa rappresentazione antropomorfa di un faro non è rimasta l’unica nella storia. Non molti sanno che la Statua della Libertà, alta 92 metri, quando fu collocata all’ingresso del porto di New York, sulla Liberty Island, nel 1886, fu, per ordine del Congresso degli Stati Uniti, definita “Aid to navigation” (Aiuto alla navigazione), cioè un faro a tutti gli effetti, sia pure a luce fissa, era gestito dal Servizio Fari americano ed è stato elettrificato poco tempo dopo la sua collocazione, il primo in assoluto ad essere elettrificato negli Stati Uniti. Questo durò fino al 1902, quando perse la sua funzione di faro a causa della sua luce insufficiente, comunque la torcia rimase accesa e il 15 Ottobre 1924 fu dichiarata monumento nazionale diventando il simbolo della Grande Mela, visitata da migliaia di turisti ogni anno.
Il faro dei fari, il faro per eccellenza, un’altra delle sette meraviglie del mondo era il Faro di Alessandria, la grande città egiziana sul Mediterraneo fondata da Alessandro Magno nel 332 A.C. Questo monumento ebbe una vita lunga, ma dovette affrontare molte traversie prima di vedere anche lui, la sua fine. E’ stato costruito da Sostrato di Cnido intorno al 280° A.C. sull’isolotto di Pharos, oggi un promontorio, di fronte ad Alessandria, ed è stato a partire da questo nome “ØÜñïò” (Faro) che in seguito in tutte le lingue di origine greca e latina è stato definita la struttura che illumina il mare, mentre nella lingua anglosassone il faro diventa “lighthouse”, casa della luce. La sua costruzione iniziò sotto il regno di Tolomeo I° (305-283 A.C.), che aveva servito Alessandro Magno come generale, e terminò durante il regno di suo figlio Tolomeo II° (285-246 A.C.). I Tolomei erano i nuovi Faraoni dell’Egitto ellenistico, insediati da Alessandro, una dinastia che sarebbe terminata con Cleopatra, nata nel 69 A.C. da Tolomeo XII, la mitica regina che, tra storia e leggenda, sarebbe stata l’ultima della sua stirpe, fino alla dominazione romana dell’Egitto. Il faro di Alessandria era la struttura di segnalazione più famosa al mondo, era alta 120 mt., la torre era rivestita di pietra bianca e il fuoco acceso sulla sua sommità, grazie ad un gioco di specchi, che si dicevano progettati da Archimede, poteva essere visto a più di 30 miglia di distanza. Era stata costruita in tre parti, una base quadrata alta 71 mt., una parte centrale ottagonale alta 34 metri ed una lanterna cilindrica, sulla cui sommità svettava una statua di Zeus, perché i greci Tolomei avevo portato nella nuova terra anche gli dei della terra d’origine. All’interno un larga rampa consentiva di portare alla lanterna, per mezzo di muli, il combustibile composto da legna resinosa, inoltre serviva da alloggio per una guarnigione di soldati di guardia al porto. Nel 641 D.C. il faro fu danneggiato dall’assedio posto dagli Arabi che conquistarono Alessandria e con questo terminò la sua funzione di lanterna, pur rimanendo al suo posto, ma venne in seguito distrutto da una serie di terremoti. Nel 700 D.C. crollò la lanterna, nel 1100 la struttura ottagonale e l’ultima scossa, nel 1302, fece crollare in mare anche la base quadrata che, nel frattempo, era diventata una moschea. Cosa abbia spinto a costruire un simile monumento in quel luogo ed in quell’epoca è un mistero, in quanto per molti secoli rimane l’unico al mondo del suo genere.
Nel 1995 alcuni enormi blocchi di granito, che sembrerebbero provenire dai resti del faro, sono stati rinvenuti da una spedizione di archeologi subacquei francesi, guidati da Jean Yves Empereur, mentre esplorava i fondali del porto di Alessandria alla ricerca di vestigia dell’antica città. Comunque questo mitico faro ha talmente colpito l’immaginario collettivo che lo si trova spesso rappresentato su stampe. libri e dipinti. Nel grande atrio dell ‘Empire State Building di New York è situato un pannello che rappresenta il grattacielo che irradia raggi di luce dalla sua sommità, quasi una rappresentazione allegorica del primo grande faro conosciuto dall’umanità.
Dopo queste meraviglie i fari sembrano sparire, si ritorna ai falò, o a rudimentali torri, fino a quando un’altra grande civiltà si affaccia su Mediterraneo : quella dei Romani. E’ con loro che vengono costruite le prime torri in pietra sulla cui sommità si tiene acceso un fuoco di fascine e di legna, ed è con i Romani che queste torri escono dal bacino del Mediterraneo per accendersi sulle coste spagnole e francesi, arrivando fino al Canale della Manica, dovunque arrivasse la conquista romana. In Italia, a Ostia, viene costruito dall’imperatore Claudio nel 50 d.c. un porto, poi ampliato da Traiano, come sbocco sul mare della capitale, porto che è diventato presto molto importante per i traffici marittimi. Al suo ingresso è stato eretto un faro che ha una certa somiglianza con quello di Alessandria, anche se non nelle dimensioni. Di questo faro ci sono rimaste alcune testimonianze, una di queste è visibile nel pavimento a mosaico del piazzale delle Corporazioni di Ostia Antica. Altri fari sorgono dovunque vi sia un porto romano, dal Tirreno all’Adriatico e oltre, i fari vengono rappresentati su monete e bassorilievi, come sulla Colonna Traiana a Roma. Prima della caduta dell’Impero Romano almeno 30 torri di segnalazione illuminavano il mare lungo le coste del Mediterraneo e dell’Atlantico.
Un faro fatto costruire da Caligola intorno al 41 d.c., sulla costa francese, vicino a Boulogne, il primo faro in assoluto in quel paese, alto 37 metri, dopo l’abbandono da parte dei Romani e benché pare che lo stesso Carlomagno avesse ordinato il suo restauro nell’800 d.c. e che sia stato acceso di tanto in tanto, è crollato definitivamente nel 1644, a causa delle ingiurie del tempo e dell’erosione del mare.
Esiste però tutt’ora un faro costruito dai romani ancora in piedi, è quello di La Coruña, l’antica Brigantium, in Galizia, regione Nord Occidentale della Spagna, chiamato anche Torre de Hèrcules per via delle molte leggende che lo circondano legate al mitico eroe, da cui, si dice, sia stata eretta la prima torre.
Fu costruito da Caio Sevio Lupo, un architetto proveniente dalla Lusitania, l'’odierno Portogallo, nel II° secolo d.c. durante il regno dell’Imperatore Traiano, fu dedicato a Marte ed è tutt’ora conservata in una piccola costruzione alla base del faro la targa con l'’iscrizione che il suo costruttore pose allora alla sua base :
MARTI AUG. SACR. / C. SEVIVS LUPUS
ARCHITECTUS AEMINIENSIS
LUSITANUS EX.VO
Che tradotta significa : " Consacrato a Marte. Caio Sevio Lupo, architetto di Aemium, in Lusitania, a compimento di una promessa"
La costruzione ha subito danni e modifiche nel corso dei secoli, è stato ristrutturato in varie occasioni, in maniera più completa nel 1791 e l’ultima volta nel 1970, comunque ha funzionato ininterrottamente dal 1847 ed è tutt’ora funzionante, diventando il simbolo della città di La Coruña. Le pietre della sua base sono ancora quelle poste in opera dai Romani, e la targa lasciata dall’architetto ne è la testimonianza. Questo faro si trova a lat. 43° 23.2' Nord e long. 8° 24.3' Ovest, è alto 48 metri ed ha una portata luminosa di 23 miglia.
Finita la gloria di Roma e caduto l’Impero Romano, i secoli bui che seguono oscurano anche il mare. La navigazione in questo periodo torna ad essere costiera, lungo le rotte conosciute, sono ancora lontani i tempi delle grandi esplorazioni ed il pericolo di popoli navigatori e guerrieri provenienti dal Nord che potevano arrivare all’improvviso, depredare e fuggire, scoraggiavano l’uso di segnalazioni costiere che potevano piuttosto guidare la loro rotta che aiutare naviganti in difficoltà.
Le torri erette dai romani vanno in rovina e si ritorna ai falò sulle colline nei punti pericolosi per la navigazione o a bracieri a bracci mobili posti soprattutto all’ingresso dei porti. In Inghilterra e Francia, governate già dalle grandi dinastie, sono soprattutto le torri dei monasteri in riva al mare a svolgere la funzione di fari, sempre alimentati con fascine di legna o semplicemente illuminati da candele, e gestiti da ordini monastici o dai grandi ordini religiosi cavallereschi. In questo periodo, sono proprio i monaci in cerca di un eremo deserto, sull’esempio di San Venerio che nel VII° secolo aveva fondato un monastero e teneva acceso un fuoco sull’Isola del Tino, nel Golfo di la Spezia, a fondare comunità di frati, soprattutto sulle tormentate coste e isole del Nord Atlantico e a costruire torri sulla cui sommità tengono acceso un fuoco. Un esempio è il faro di Hook Head, sulle coste orientali dell’Irlanda, Lat. 52° 7.3’ Nord, Long. 6° 55.7' Ovest, che fu fatto costruire da un nobile normanno nel 1172 sia come fortezza che come torre di segnalazione, il quale affidò ai monaci di un vicino monastero il compito di tenere accesa una luce sulla sua sommità. Questo edificio ha subito parecchi interventi e modifiche nel corso dei secoli, e ha raggiunto la sua forma definitiva solo verso la fine del 1800, ma le spesse mura, gli alti soffitti a volta, e persino un antico caminetto, nel suo interno sono una testimonianza del suo passato. Al suo esterno la torre ha una colorazione a righe bianche e nere su cui spicca una lanterna bianca, è alto 46 metri sul livello del mare e la sua luce ha una portata di 23 miglia.
Il Medioevo viene definito l’epoca dei secoli bui, in realtà c’era già in atto quel cambiamento che avrebbe poi portato ad un rinascere non solo delle arti, ma anche della navigazione e dei lunghi spostamenti via mare. In questo stesso periodo, in Germania, la Lega Anseatica riunisce già molte città costiere tedesche e scandinave e anche qui sorgono fari a protezione delle coste e dei porti per favorire il commercio.
E’ solo a partire dal XII° secolo, con la ripresa dei commerci, soprattutto con l’Oriente, che lungo le coste d’Italia, su cui si affacciano la quattro Repubbliche Marinare, ma pur sempre divisa tra Signorie e Comuni, vengono erette alcune torri sulla cui sommità continuano a bruciare brugo e ginestra, il combustibile più comune che nasce appena alle spalle del mare. Ricordiamo le torri di Genova, e quella di Porto Pisano, insabbiatasi a Marina di Pisa, della quale non rimane più niente, e sostituta con il faro di Livorno, poi la torre sulle secche della Meloria, il primo faro costruito in mare aperto nel 1157, distrutto durante la battaglie navali tra Genova e Pisa nel 1284, ricostruito nel 1712 e tutt’ora esistente, e il vecchio faro romano di Capo Peloro, a Messina, punto cruciale per la navigazione sulla rotta dei Crociati che si recavano in Terrasanta e ricordato anche da Riccardo Cuor di Leone. Fra tutti solo il faro di Genova, ricostruito nel 1543 e il faro di Livorno, sono ancora attivi ai giorni nostri. Per il mantenimento dei fari nei porti tutte le navi in entrata erano obbligate a pagare una tassa che permettava la cura e l’alimentazione del fuoco sulla sommità del faro stesso.
Intanto si evolve anche la navigazione, l’uso della prima bussola, sia pure rudimentale, la rende più sicura, e vengono redatti i primi portolani che riportano anche le posizioni dei fari.
Questo primitivo sistema di illuminazione costiero ha avuto anche dei risvolti tragici. Sin dai tempi più antichi, soprattutto lungo le coste frastagliate del Nord Europa, un’altra minaccia si era affacciata lungo le coste : i pirati di terra, razziatori feroci che usavano accendere dei fuochi proprio nei punti più pericolosi, attirando le navi su secche, scogli o spiagge, dove andavano ad arenarsi, per poi depredarle, senza lasciare dietro di sé nessuno che potesse raccontare la brutta avventura. Questo tipo di pirateria continuò nel tempo, soprattutto nelle fredde a nebbiose acque del Nord Europa, fino al XIX Secolo, e neppure le minacce di severissime sanzioni riuscì mai a fermarli. In certi paesi nordici si raccontano ancora queste truci storie che fanno ormai parte del folklore locale.
Durante le epoche rinascimentali e barocche il faro viene considerato una struttura architettonica che, oltre a svolgere la sua funzione, deve essere anche un monumento degno di ammirazione. Spesso, però, queste strutture, per quanto belle e monumentali, si rivelavano poi poco adatte allo scopo per cui erano state costruite. In Francia l’architetto Louis de Foix ottiene nel 1584 l’incarico di costruire il faro di Le Cordouan, all’estuario della Gironda, nel luogo in cui già esisteva un antico faro del XII° secolo, e lo fa diventare un fiabesco castello ricoperto di statue, guglie e pinnacoli, la cui lanterna raggiungeva i 37 metri. All’interno si trovava anche due stanze destinata ad accogliere un re ed una cappella, una piccola Versailles in mezzo al mare. I lavori durarono 27 anni, terminarono nel 1611 e fu il figlio dell’architetto a portarli a termine seguendo fedelmente il progetto paterno. Una strana leggenda racconta che quella zona di mare era infestata dal demonio, che provocava continue tempeste per potersi impadronire delle anime degli annegati, ma questo ritardava anche i lavori del faro, e allora de Foix fece un patto con il diavolo, gli promise l’anima del primo essere che fosse entrato nel faro, in cambio di un po’ di mare calmo. Fu accontentato e quando il faro fu terminato il diavolo arrivò a reclamare quanto dovutogli, allora l’architetto gettò sulla porta del faro un rospo, ed il demonio dovette andarsene, il patto era stato rispettato. Una bella storia, naturalmente inverosimile, anche perché quando il faro fu terminato, nel 1611, Louis de Foix era già morto.
Il faro di Le Cordouan da un'antica stampa
Il faro di Le Cordouan esiste sempre, si trova a Lat. 45° 35.2' Nord e long. 1° 10.4' Ovest, ha perso tutte le sue magnifiche sovrastrutture e rimane separato dalla costa durante l’alta marea, ma la sua base cinquecentesca, gli interni e la cappella dedicate ad un Re che non ci è mai entrato, sono sempre al loro posto. La sua torre ora è alta 57 metri e la sua lanterna ha una portata di 22 miglia.
Faro di Le Cordouan oggi
In Inghilterra un estroso personaggio, Henry Winstanley, nel 1696 riesce ad erigere sul pericolosissimo scoglio di Eddystone lungo la costa meridionale dell’Inghilterra, un fantasioso faro in legno, dotato di una grande veranda aperta, un terrazzo ed un’elaborata lanterna, sempre di legno. Lo considerava capace di sopportare le peggiori tempeste, ma nella notte del 27 Novembre 1703 una terribile ondata si portò via il faro e tutti quelli che si trovavano all’interno, compreso il suo costruttore. Un secondo faro, sempre in legno, costruito nel 1709. venne distrutto da un incendio nel 1755. A questo punto la costruzione di una terza e, si sperava, definitiva torre , fu affidata a John Smeaton, un ingegnere civile che aveva inventato il “Portland cement” che utilizzò in maniera molto efficace nella costruzione del faro, infatti la lanterna, inaugurata nel 1759, resse per 120 anni, finché, nel 1870, si rese necessario smantellarla, non perché fosse pericolante, ma questa volta era lo scoglio su cui era appoggiato a cedere. Il faro non venne distrutto, ma fu ricostruito sulla terraferma, a Plymouth Hoe, dove si trova tutt’ora.
Il quarto e definitivo faro di Eddystone fu costruito nel 1882 da Sir James Douglass nelle immediate vicinanze dei vecchi fari, su un cassone di cemento sommerso, grazie all’avanzare della tecnologia e di nuove scoperte, e da allora la torre alta 49 metri si erge a lat. 50° 10' 80" Nord e long. 4° 15' 90" Ovest con una portata luminosa di 22 miglia. Il faro è automatizzato e deserto, ma sulla sua sommità un eliporto consente l’atterraggio periodico di personale addetto alla sua manutenzione.
Il faro di Eddystone oggi
Come abbiamo visto, nei secoli 1600 e 1700 la costruzione del faro, soprattutto in zone pericolose, in mare aperto, era affidata a personaggi che guardavano più al lato estetico che non a quello pratico, così alcune di queste torri si sono rivelate non adatte a sopportare le terribili condizioni climatiche dell’Oceano Atlantico, molti hanno dovuto essere ricostruiti più volte per non lasciare al buio un tratto di mare pericoloso.
Bisogna arrivare al 1800, il secolo della “farologia”, per vedere nascere delle meraviglie dell’ingegneria, soprattutto lungo le coste di Inghilterra, Scozia e Irlanda, dove delle vere e proprie dinastie di costruttori di fari erigono torri severe e semplici su scogli appena affioranti dal mare, imprese che sembrano impossibili e che richiedono anni per essere realizzate. I Douglass in Inghilterra, gli Stevenson in Scozia e gli Halpin in Irlanda ci riescono, costruendo torri in granito appena affioranti dal mare. Alcuni esempi sono il faro di Skerryvore in Scozia (Lat. 56° 19.4' Nord, Long. 7° 06.9' Ovest), costruito tra il 1839 ed il 1844, il faro di Longship, in Cornovaglia (Lat. , 50° 03.97' Nord, Long. 5° 44,75' Ovest), ricostruito due volte, la seconda tra il 1870 ed il 1875, il faro di Bishop Rock, sempre in Cornovaglia (Lat. 49° 52.3' Nord, Long. 6° 26.7' Ovest), ricostruito tre volte, l’ultima tra il 1883 ed il 1887 e quello di Fastnet (Lat. 51° 23.3' Nord, Long. 9° 36.1' Ovest), in Irlanda, costruito tra il 1899 ed il 1904, “Il faro delle lacrime”, come veniva chiamato dagli emigranti Irlandesi, perché era l’ultimo lembo di terra patria che vedevano prima di affrontare la traversata dell’Oceano nella speranza di una vita migliore. Per realizzare questi fari la tecnica di costruzione era in un certo senso semplice, i conci di granito venivano ricavati da una cava non distante dal luogo dove la pietra sarebbe stato imbarcata, poi, prima di caricarle sulle barche d’appoggio ai lavori, venivano lavorati da abili scalpellini che creavano ai lati delle forme ad incastro, come una coda di rondine, in modo che ogni pietra, una volta messa a dimora, entrava esattamente nell’altra, creando una torre che diventava come un unico blocco di granito. Queste torri erano abbastanza larghe alla base, e si restringevano verso la cupola, facendo dire ai guardiani che “sembrava di lavorare dentro la cappa di un camino”. Le altezze di questi fari variavano dai 35 metri, con una portata di 18 miglia per Longship, Bishop Rock era alto 44 metri ed aveva una portata di 24 miglia, Skerryvore, 48 metri di altezza con una portata di 26 miglia, mentre Fastnet, arrivava a 54 metri con una portata di 27 miglia.
In Francia, nello stesso periodo e nelle stesse condizioni, vengono costruiti fari che si ispirano a stili diversi, alle varie epoche storiche, dal medioevale al gotico e al moderno, rifiniti anche all’interno in modo sontuoso, secondo la fantasia del loro costruttore e seguendo il gusto del bello caratteristico dei francesi, molto diversi dal lineari e semplici fari inglesi. La Francia era rimasta un po’ indietro rispetto alle altre nazioni Europee nella costruzione dei fari, ma quando iniziò li realizzò in modo che una nave, appena perso di vista un faro, ne potesse subito avvistare un altro. Lungo la penisola di Finistère, in Bretagna, la prima ad essere avvistata dopo la traversata Atlantica dagli Stati Uniti, ne conta ben 120 e sono migliaia lungo tutte le coste francesi.
Uno dei più eleganti fari francesi è quello di Kéréon, costruito su uno scoglio al largo delle coste della Bretagna a lat. 48° 26' 3" Nord, long. 5° 01' 6" Ovest. E’ uno dei più recenti, venne costruito con una donazione privata e terminato nel 1916 tra mille difficoltà dovute sempre alla condizioni del mare, ma alla fine sullo scoglio si alzava una torre imponente, alta 41 metri, sovrastata da una merlatura su cui posava una lanterna bianca che lanciava un lampo visibile fino a 19 miglia. Ma la meraviglia era l’interno, tutto in boiserie di legni pregiati, con un’enorme salone di 6 metri di diametro decorato al centro con una rosa dei venti, che veniva usato dai guardiani per le loro registrazioni giornaliere. I guardiani di questo faro, veramente privilegiati, se ne sono andati per l’ultima volta nel 2004, abbandonando al mare uno scrigno prezioso. Anche altri fari avevano l’interno decorato in legno, come il Faire des Baleines, sull’Ile de Re, un’isola nel Golfo di Biscaglia a lat. 46° 14’ Nord, Long. 1° 33’ Ovest, un faro costruito nel 1854, alto 57 metri e con una portata luminosa di 21 miglia, quello di Creac’h, situato sull’Isola d’Ouessant, sull’estremità Nord Occidentale della Bretagna, Lat. 48° 27’ Nord, Long. 05° 07’ Ovest. Questo faro è alto 55 metri ed ha una portata di 34 miglia, uno dei più luminosi di quella costa. Un altro faro famoso è quello situato sull’isolotto di La Jument, a Sud Ovest dell’Isola di Ouessant, a Lat. 48° 25' 4" Nord, Long. 5° 08' 1" Ovest, anche questo fu costruito con una donazione privata tra il 1904 ed il 1911, ma alla fine la sua altezza raggiungeva i 47 metri ed aveva una portata di 22 miglia. Questo faro è stato riprodotto in moltissime fotografie, famosissima quella dell’ondata che lo avvolge, mentre il guardiano si affaccia alla porta. Questa torre, però, rivelò ben presto di avere dei grossi problemi, ondeggiava pericolosamente sotto le ondate, al punto che i vetri della lanterna si rompevano ed il mercurio su cui galleggiava la lente di Fresnel fuoriusciva, creando un pericolo di intossicazione per il personale. Si scoprì che sotto la roccia su cui era stata costruita la torre esisteva una cavità che nessuno aveva notato prima. Furono effettuati lavori di consolidamento, il faro fu messo in sicurezza, ma nonostante questo continuava ad ondeggiare, e i guardiani, quando vi abitavano, finirono per abituarsi a questa particolarità, e vi restarono fino al 1991, quando il faro fu automatizzato.
L'’Italia, come abbiamo già visto, è ricca di fari storici, a partire da quello di Livorno, costruito nel 1304 per volere di Cosimo I° De Medici che vedeva in quella città lo sbocco ideale al mare per i suoi traffici marittimi. La struttura è stata costruita in pietra naturale, alta 52 metri e con una portata di 25 miglia, ed è costituita da due torrioni merlati, quello inferiore più largo e quello superiore più stretto, divisa in 11 piani, su cui domina la lanterna. La sua posizione è : Lat. 43° 33’ Nord, Long. 10° 18’ Est. Questo faro che aveva superato indenne i secoli, subì il più grande oltraggio nel 1944, quando le truppe tedesche in ritirata lo fecero saltare con una carica esplosiva, distruggendolo. Fu la popolazione di Livorno che lo volle ricostruire, utilizzando dove possibile tutto il materiale recuperato dalle macerie o ricavando nuovi conci dalla cava da cui erano stati estratti in origine. Il 16 Settembre 1956, con un’imponente cerimonia a cui partecipò lo stesso Presidente della Repubblica di allora, Giovanni Gronchi, il nuovo faro fu inaugurato e in seguito divenne monumento nazionale. Oggi la torre, automatizzata, si erge all’ingresso del porto. Purtroppo alle sue spalle si elevano le gru dei cantieri navali, forse questo non sarebbe piaciuto a Cosimo De Medici, ma questo faro, severo nelle sue linee, continua a funzionare.
Un altro faro storico è la “Lanterna” di Genova, ormai così chiamata da secoli, tanto da aver perso il suo originale nome di faro. La sua storia parte dal lontano 1129, quando doveva essere solo una torre rudimentale, sulla cui sommità venivano bruciati sterpi di brugo (erica) e ginestra ed il cui mantenimento era supportato dalle gabelle richieste alle navi in entrata nel porto. La torre è stata modificata molte volte, ha subito danni vari a causa delle lotte intestine tra fazioni avverse, finché è stata distrutta dalla stessa flotta genovese, capitanata da Andrea Doria, che bombando dal mare il forte che si trova ai suoi piedi, allora occupato dai francesi, troncò di netto il vecchio faro. Ma questa fu la sua rinascita, nel 1543 la bellissima torre, come la conosciamo oggi, era terminata, e si narra che il Doge avesse dato ordine di lanciare l’architetto che l’aveva costruita dalla sua sommità perché una simile bellezza non potesse mai essere uguagliata. Leggenda a parte, il faro era stato costruito per volere del Doge Andrea Centurione con i finanziamenti del banco di San Giorgio. Quella che una volta era una torre poggiata su un promontorio in riva al mare, oggi sovrasta un’area del porto di Genova, a Lat. 44° 24’ Nord, Long. 8° 54’ Est, e dalla sua altezza di 77 metri (117 sul livello del mare), lancia la sua luce visibile a 26 miglia. A Portoferraio, Isola D’Elba, sul bastione settentrionale dell’imponente fortezza fatta costruire da Cosimo I° De Medici, si erge un faro, alto 25 metri, costruito dall’Arciduca austriaco Leopoldo di Lorena nel 1778. E’ un faro di forma vagamente medioevale, che termina con una merlatura su cui posa la lanterna, eretto in origine come saluto ai naviganti che entravano nel porto. Dopo l’unificazione d’Italia, nel 1860, la torre è diventata un faro a tutti gli effetti e dalla sua posizione a Lat. 42° 49’ Nord e Lat 10° 20’ Est lancia tre lampi bianchi ogni 14 secondi, con una portata di 16 miglia. Una storia singolare è quella del faro si San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, in Sicilia, a Lat. 38° 11’ Nord, Long. 12° 44’ Est, composto da un bianco caseggiato, alloggio dei guardiani, uffici e magazzini, su cui svetta una torre alta 40 metri, che lancia un lampo bianco con una portata di 18 miglia. Costruito dai Borboni durante il Regno delle Due Sicilie e inaugurato il 1° Agosto 1859, è entrato a far parte dei beni del Regio Genio Civile Italiano nel 1860, subito dopo l’unificazione d’ Italia.
Altri fari antichi si trovano sparsi lungo le coste italiane, a ricordo di antiche signorie e piccoli stati che dividevano la nostra nazione, ma dopo il 1860 il Regio Genio Civile dovette affrontare una rapida e razionale illuminazione di tutti gli 8.000 chilometri di costa di un’Italia ormai diventata un’unica nazione. Fu così che sorsero fari un po’ dappertutto, molti dei quali piuttosto simili nel disegno architettonico, una grande casa, sormontata da una torre.
Un esempio per tutti, il faro di Capo Sandalo, sull’isola di San Pietro, in Sardegna, costruito nel 1864 su un’alta roccia a picco sul mare, il più occidentale dei fari italiani, a mezza strada tra Gibilterra a l’Africa, posizionato a Lat. 39° 09’ Nord, Long. 8° 13’ Est, un grande caseggiato in pietra scura, a due piani, sormontato da una torre alta 30 metri, 138 sul livello del mare, la cui portata è di 28 miglia. Come molti altri fari italiani tutta la struttura è avvolta dalla Gabbia di Faraday, una specie di gigantesco parafulmine che protegge il caseggiato durante le tempeste.
Per quanto riguarda queste similitudini architettoniche tra i fari bisogna fare una precisazione. In realtà la loro somiglianza è solo apparente, non esiste un faro uguale ad un altro, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo, sia per quello che riguarda la struttura, la forma o la colorazione, che per quello che riguarda la loro luce. L’aspetto esterno, ben descritto in ogni portolano, serve a riconoscerli durante il giorno, mentre la loro luce, lampo, eclissi, eclissi, lampo all’infinito, li rende riconoscibili di notte. Ogni portolano riporta la sequenza della luce e dell’eclissi, ed ogni faro ha una sua particolare sequenza. Quello di Genova, ad esempio, ha un periodo di luce 0,2”, eclisse 4,8”, luce 0,2”, eclisse 14,8”. Alcuni fari lanciano un unico lampo ogni tot secondi, intervallato da una lunga eclissi, altri ne lanciano due, o tre, sempre intervallati dall’eclisse, altri fari, oltre al lampo bianco, lanciano anche un lampo verde ed uno rosso, per segnalare zone di particolare pericolo, mentre ci sono fari che mantengono una luce bianca fissa. Questo dipende dalla loro collocazione e dalla loro funzione.
Attraversando l’Oceano Atlantico, in Nord America, i primi coloni che arrivarono dall’Europa sentirono la necessità di illuminare le coste già a partire dal 1700, ma subito dopo la ratifica della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, nel 1778, erano già stati costruiti tredici fari, soprattutto nel New England, sulla costa orientale, una delle zone più colonizzate, che dovevano aumentare velocemente nel giro di pochi anni. Il faro più antico degli Stati Uniti è quello che si trova a Little Brewster Island una piccola isola all’ingresso del porto di Boston, a Lat. 42° 19’40 39” Nord, Long. 70° 53’24 26” Ovest. La torre, in pietra, alta 29 metri, con una portata di 16 miglia, è stata costruita nel 1716, è stato il primo faro ad essere costruito in America, l’ultimo ad essere automatizzato, nel 1998, e l’unico ad essere ancora custodito da un guardiano.
Il faro di Portland Head, nelle vicinanze del Porto di Portland, nel Maine, fu acceso per la prima volta il 10 Gennaio 1791 ed era illuminato da 16 lampade alimentate con olio di balena. La sua posizione è Lat. 43° 37’ Nord, Long. 70° 13’ Ovest. Questi primi fari americani furono eretti soprattutto prendendo a campione le costruzioni del vecchio continente, ma ben presto, negli anni seguenti, si evolsero in uno stile più “americano”. Questo faro, la vigilia di Natale del 1886, fu testimone di un fatto che ancora oggi viene ricordato da una scritta alla base della torre. Il tre alberi Annie C McGuire si schiantò sugli scogli ai suoi piedi in una bella giornata di mare calmo e senza vento. Il guardiano Joshua Strout, aiutato alla moglie e dal figlio, passò una semplice scala tra le rocce e l’imbarcazione, mettendo in salvo il capitano, sua moglie e tutto l’equipaggio. Nessuno seppe mai spiegarsi come quel naufragio fosse avvenuto. Lo strano è che alcuni giorni dopo una terribile tempesta distrusse completamente il relitto. Questo faro ha ispirato anche un grande poeta : uno dei suoi visitatori più assidui era Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882) che, seduto ai suoi piedi, scrisse una delle sue più belle poesie “The Lighthouse”. Una targa in bronzo ricorda questo evento.
I fari raggiunsero l’Ovest degli Stati Uniti molto più tardi, dopo che era cominciata la corsa verso le terre dell’Ovest al termine della Guerra di Secessione, così lungo quella costa furono presto fondate città e porti. Il primo faro fu costruito su un’altura sovrastante San Diego, in California, nel 1854, a Point Loma, 128 metri sul livello del mare, una graziosa casetta dal tetto spiovente, su cui si alzava una torre in mattoni, alta 14 metri, a Lat. 32° 43’ Nord, Long. 117° 11’ Ovest. Ben presto i costruttori dovettero però rendersi conto che quella zona era spesso avvolte nella nebbia, ed il faro non era visibile dal mare, per cui ne costruirono un altro nel 1891 a livello del mare, forse un po’ frettolosamente, perché la sua architettura non ha niente a che vedere con quella del faro in cima alla collina. Questo è una torre in pietra bianca, sostenuta da un traliccio in ferro, dipinto di nero, che gli dà l’aspetto di un ragno. Questi fari ora si chiamano “Old Point Loma” il vecchio faro, trasformato in un museo, mentre il New Point Loma svolge la sua funzione ancora oggi ed è, oltretutto, un frequentato punto di avvistamento per il passaggio delle balene.
Un altro faro storico, molto interessante, è quello di Capo Hatteras, che si trova sugli Outer Banks del North Carolina, nel Sud Est degli Stati Uniti, sul Capo omonimo, una specie di cuneo che si inoltra nell’Oceano Atlantico che in quel punto si è guadagnato il ben triste appellativo di “Cimitero dell’Oceano”, per via dei molti naufragi che si sono verificati nel corso dei secoli. In quella zona la calda corrente del Golfo proveniente da Sud si incontra con la fredda corrente del Labrador che scende dal Nord, e questo fa si che i terribili banchi di sabbia che si trovano lungo la costa siano in continuo movimento, rendendo la navigazione molto pericolosa. Il faro, a Lat. 35° 15' 14" Nord, Long. 75° 30' 56" Ovest, fu costruito nel 1870, era alto 60 metri e oggi il suo lampo è visibile a 20 miglia. Con la sua livrea a strisce bianche e nere a spirale è uno dei più conosciuti degli stati Uniti, ma non il più tranquillo. L’Oceano si stava avvicinando pericolosamente alla sua base, l’erosione marina lo stava minacciando al punto che si temeva potesse crollare, così fu deciso che doveva essere spostato. Un compito n non facile, ci vollero 10 anni di studi e discussioni prima che questo avvenisse, e finalmente nel Settembre del 1999 l’impresa fu portata a compimento con successo ed ora il faro si trova nella sua nuova collocazione a circa 500 metri dal mare.
Questi sono solo alcuni cenni su qualche faro storico e famoso in diverse parti del mondo e soprattutto su fari che hanno qualcosa da raccontarci, fari interessanti per le loro vicissitudini e la loro collocazione, se volessimo parlare di tutti i fari e ascoltare tutte le loro storie, non basterebbe un volume con molte, molte pagine.
Ormai la navigazione a vapore era largamente diffusa e con questa si diffusero i fari per rendere sempre più sicura le rotte in mare aperto. I commerci tra l’occidente e l’oriente, le colonie, portarono alla costruzione di fari in tutti gli angoli del mondo. Dovunque ci fosse una colonia europea o arrivassero la navi occidentali, lì si elevava un faro: dall’India, al Giappone, dove i fari sono stati costruiti grazie ad un ingegnere scozzese, Richard Henry Brunton, che introdusse questo tipo di tecnologia in quel paese, fino alla Cina ed oltre. In realtà, secondo alcune fonti, in Cina i fari non erano una novità. Nell’ 840 d.c. il monaco RuHai aveva costruito all’ingresso di quello che oggi è il porto di Shangai, una pagoda a cinque piani, la pagoda Mahota, su tetto della quale teneva accesa una lanterna durante la notte per aiutare i marinai che entravano nel porto. Anche in questo paese all’altro capo del mondo troviamo un monaco che in tempi antichi si faceva carico di aiutare i naviganti. Purtroppo, nonostante accurate ricerche, non è stato possibile verificare se questa pagoda-faro esista ancora, sia pur modificata nei secoli.
Il problema di base e sempre stato quello dell’illuminazione dei fari, e l’evoluzione in questo campo è stata molto lenta. Per prima è stata usata la legna, sia al naturale che impregnata di resina, sicuramente il combustibile più abbondante e più facile da reperire, ma era anche quello che si consumava più rapidamente ed il falò doveva essere continuamente alimentato. In seguito viene usato il carbone utilizzando una specie di fornello che ne facilitava l’utilizzo, ma anch’esso si consumava facilmente, non era facile averne a disposizione e non faceva abbastanza luce. Altri problemi erano rappresentato dal vento che spegneva la fiamma, e dalla fuliggine, che la oscurava, impedendo una buona visibilità. Intorno al 1200 per la prima volta viene installato il vetro sulle lanterne, ed i fari finalmente avevano una protezione contro gli agenti atmosferici, assumendo un aspetto più simile a quello che conosciamo, e questo permetteva di usare combustibili diversi come candele (ben 37 ne vennero impiegate nei primi fari di Eddystone), di cera e di spermaceti, il prezioso grasso estratto dalle teste dei capodogli, un combustibile che non fa fumo, oppure olio di oliva o di balena, a seconda delle latitudini. Questo vetro però era spesso ed opaco ed era difficile tenerlo pulito, solo nel 1700 il vetro si evolve e diventa simile a quello in uso oggi. Era indispensabile rendere i fari sempre più luminosi in modo che la loro luce si distinguesse da quelle della costa dove stavano crescendo nuove città e nuovi porti.
Nel 1782 il fisico svizzero Aimé Argand (1755-1803) costruì un bruciatore circolare costituito da 10 stoppini alimentati ad olio che avevano una durata di 10 giorni ed era posizionato in modo tale che l’aria veniva convogliata verso l’alto, rendendo la luce più visibile. Questo tipo di lampada arrivò al di là dell’Oceano copiato, si dice, dal Capitano Winslow Lewis che la propose per i fari americani. Nel frattempo continuavano le ricerche per potenziare la luce tramite sistemi di specchi parabolici, sistema che fu perfezionato alla fine del 1700 dallo svedese Jonas Norberg (1711-1783) che mise a punto un sistema di specchi rotanti che ampliavano la luce, azionati da una meccanismo ad ingranaggi e contrappesi, manovrato a mano. Questo sistema è stato usato per molti anni a venire e ancora oggi, in molti fari, rimane come sistema di emergenza. L’orologiaio francese Bertrand Carcel (1750-1812) perfezionò nel 1800 la lampada di Argan progettando una lampada, sempre al olio, formata da più stoppini concentrici. Questo sistema di illuminazione rimase in uso per molto tempo, fino all’arrivo delle lenti di Fresnel.
Augustin Jean Fresnel (1788-1827) dopo aver studiato fisica, era diventato ingegnere civile, ma si era specializzato nello studio della rifrazione della luce. Nel 1822 egli progettò una lente a rifrazione che sperimentò con successo per la prima volta nella lanterna del faro francese di Le Corduan e che oggi è stata collocata nel Museo del Faro di Ouessant. Questa lente innovativa è basata in realtà su un principio molto semplice : ha una forma vagamente ovale ed una serie di anelli prismatici (catadiottrici) posti nella parte superiore e nella parte inferiore incanalano i raggi luminosi verso il centro, dove la lente principale a occhio di bue li raccoglie e li proietta verso l’esterno. All’inizio queste lenti erano molto pesanti e si poneva il problema della loro rotazione e fu Fresnel stesso che risolse il problema posando dei galleggianti in un bagno di mercurio, che ha una notevole densità ed è in grado di sostenere grossi pesi, sui quali poi erano posate le lenti. In seguito il bagno di mercurio è stato via via abbandonato a causa della sua tossicità in caso di fuoriuscita, ed è stato attivato il sistema ad ingranaggi con i pesi di cui si è parlato prima, finché, con il tempo, si è arrivati ai motori elettrici ed ai cuscinetti a sfere. Le lenti di Fresnel, sia pure modificate ed alleggerite nel tempo per renderle più maneggevoli, sono installate ancora oggi in tutti i fari del mondo. L’ingegnere scozzese Alan Stevenson, che aveva costruito circa 12 fari, si dedicò anche alla modifica di queste lenti che vennero poi prodotte in Inghilterra dalla ditta Change Brothers di Birmigham.
Nonostante questa innovazione restava sempre il problema del combustibile, perché i fari continuavano a funzionare soprattutto ad olio, che era costoso e necessitava di un continuo controllo. Nella prima metà del 1800 si era già passato gradualmente al gas ricavato dal carbone, utilizzato nell’illuminazione cittadina e nei fari a terra questo combustibile funzionava abbastanza bene. Questo procedimento era stato inventato dallo scozzese William Murdoch (1754-1839). Nel 1859, negli Stati Uniti, venne estratto per la prima volta il petrolio e questo cambiò il sistema di illuminazione dei fari che cominciarono a funzionare con oli estratti dal petrolio, soprattutto a base di paraffina che, abbinati alla lampada di Argan, dettero ottimi risultati. Nel 1885 l’austriaco Carl Auer Welsbach (1858-1929) inventò quella che poteva essere la prima lampadina, si trattava di una reticella di seta ricoperta di metallo alimentata da una miscela di gas di carbone e aria prima e con altre miscele di gas in seguito, che, diventando incandescente, produceva una fiamma molto luminosa. Nel 1892 la scoperta dell’acetilene, un composto chimico di idrogeno e carbone, portò una grossa innovazione nell’illuminazione dei fari, permettendo di illuminare anche quelli isolati in mezzo al mare. La sua luminosità si dimostrò nettamente superiore a quella di tutti i combustibili usati fino ad allora ed era anche infinitamente meno costosa, anche era necessario usarlo con qualche precauzione. La tecnologia si stava evolvendo con il passare del tempo e tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900 cominciò gradualmente l’elettrificazione dei fari, che fu completata solo molti anni dopo. L’elettrificazione dei fari in alto mare è avvenuta gradualmente tramite generatori elettrici a motore o per mezzo di energia alternativa, come la eolica o la solare. Anche le lampadine hanno subito modifiche nel corso degli anni e si è arrivati ora ai bulbi alogeni di 1000 Watt, usati in quasi tutti i fari. Solo in pochi fari, soprattutto in Francia, è ancora utilizzata il vecchio bulbo allo xeno, un gas nobile, inerte, inodore e incolore, scoperto nel 1898 dagli inglesi Sir William Ramsey e Morris W. Travers, che, sollecitato elettricamente, produce una brillante luce bianca, ma è anche potenzialmente esplosivo, infatti questi bulbi sono maneggiati con molta cura dai guardiani che nel farlo si proteggono il viso e le mani con maschere e guanti.
Una presenza importante nel faro è, ed è sempre stata, quella dell’uomo, il Guardiano del Faro, una figura che con il passare del tempo è diventata quasi mitica. I primi erano probabilmente schiavi che avevano l’incarico do raccogliere e accatastare legna per accendere, al calar del sole, i fuochi sulle colline prima ed in seguito nei bracieri in cima alle torri, continuando ad alimentarli per tutta la notte. A partire dal Medio Evo questa funzione veniva svolta dai monaci nei monasteri. Nessuno li obbligava a farlo, ma dovevano considerare un loro preciso e sacro dovere quello di tenere acceso un fuoco sulla torre più alta per tenere lontane le navi di passaggio dai pericoli del mare. Questo “mestiere” è diventato via via più diffuso, diventa un vero incarico, con l’incremento, a partire dal 1800, della costruzione dei fari che ora hanno alloggi annessi per le famiglie dei custodi della lanterna. La figura del guardiano è indispensabile perché i fari devono essere continuamente alimentati ed i vetri tenuti puliti, qualunque sia il combustibile usato, anche dopo l’avvento dell’elettricità. Molti fari, poi erano dotati di tendine tutto intorno alla lanterna, che di giorno dovevano essere accostate per proteggere le lenti dalla luce del sole. Anche la rotazione dei fari, che avveniva tramite un’apparecchiatura ad orologeria, con un peso che scendeva lungo la torre, e doveva essere ricaricato ogni tre o quattro ora, ora funziona elettricamente. Questa innovazione però ha reso più facile anche la vita dei guardiani che non devono più salire a scendere per le lunghe scale per portare il combustibile accendere la lanterna, ora una cellula foto-elettrica programmata fa tutto da sola, appena si avvicina il tramonto e la luce cala una lampadina si accende come per magia.
Il guardiano si trovava quasi sempre a vivere in una zona isolata, anche nei fari in terraferma e da qui la necessità di avere con sé la sua famiglia, anche se questo costituiva un disagio per i bambini che dovevano andare a scuola, magari percorrendo chilometri a piedi, e per le donne, che per provvedere alla famiglia spesso curavano un piccolo orto e allevano animali. Spesso nel faro abitavano più famiglie, quella del Capo Guardiano e di uno o più aiutanti, a seconda della zona, ed in questo caso il disagio poteva diminuire perché c’era sempre chi poteva dare un aiuto all’altro in caso di necessità e spesso, in questi, casi, le lezioni venivano impartite dalle stesse madri che riunivano i bambini intorno al tavolo della cucina. Quello del guardiano del faro è un mestiere particolare, un uomo di mare con i piedi per terra, non deve soffrire la solitudine, ne il caldo, o il freddo, o l’umidità, un uomo che vive sospeso tra cielo e terra, pronto ad affrontare le più terribili tempeste, con un occhio sul mare infuriato per avvistare eventuali navi in pericolo e portare loro soccorso. Quasi sempre venivano scelte persone che avevano già avuto un’esperienza in mare, che avevano navigato e quindi conoscevano i pericoli che il mare nascondeva, ma alcuni non resistevano e dopo un po’ di anni prendevano la loro famiglia e tornavano da dove erano venuti. Altri invece si facevano un punto d’orgoglio di tramandare la professione di padre in figlio e si conoscono fari dove appare lo stesso nome per più generazioni. Non è facile trovare resoconti personali lasciati da questi uomini da cui si possano ricavare notizie sulla loro vita, al di fuori del regolare giornale degli avvenimenti quotidiani che dovevano redigere per regolamento, ma si sono tramandate storie sui loro eroismi in caso di necessità. Il faro è una guida, ma non sempre questo basta ad evitare naufragi, alle volte le condizioni del mare possono essere tali che una nave, soprattutto all’epoca della vela, quando le manovre in particolari condizioni erano assai difficili, andava a naufragare proprio alla base del faro e allora il guardiano si trasformava in un eroe. Non era raro che, vedendo una nave in difficoltà, mettesse in mare una piccola barca e si prodigasse per raccogliere più naufraghi possibile, spesso aiutati dalle loro compagne che non erano da meno in quanto a coraggio. Poi c’erano le tragedie personali, piccole, come ferite o cadute, di cui non si trova traccia, o grandi come quella dell’ultranovantenne guardiano del secondo faro di Eddystone, in Inghlterra, che nel 1755, nel tentativo di spegnere l’incendio nel faro, inghiottì del piombo fuso colato dalla lanterna che ne causò la morte pochi giorni dopo, o quella del guardiano di Waugoshance, un vecchio faro abbandonato sul lago Michigan, negli Stati Uniti, il quale cercava di rendere più sopportabile la sua solitudine con un buon goccio di Wisky. Pare che una sera del 1900 ne avesse bevuto un po’ troppo e camminando lungo il pontile di attracco non ne vide la fine e cadde nel lago dove annegò. Una leggenda racconta che il suo spirito vaghi ancora tra le rovine del faro. Poi c’è la storia del guardiano del faro di Marettimo, in Italia, che assicura di convivere con i fantasmi dei marinai annegati durante la battaglia navale nello Stretto di Sicilia del 1942, ai quali prepara un posto a tavola.
Nei fari in alto mare la vita era diversa, ancora più difficile e pericolosa. Solo in quelli meno esposti e più vicini alla costa i guardiani vivevano con le famiglie, ma i fari situati su scogli in mezzo all’Atlantico, come lungo le coste inglesi, scozzesi e anche francesi, erano dominio incontrastato degli uomini, nessuna donna avrebbe potuto vivere in quelle condizioni. Si tratta di torri squassate dalla onde, torri spesso ondeggianti, dove i rifornimenti erano scarsi e l’avvicendamento molto difficile. Normalmente questi uomini, sempre più di uno, dovevano fare un periodo di tre settimane al faro e due a terra, ma il più delle volte le condizioni del mare erano tali che la barca d’appoggio non poteva neanche avvicinarsi, così gli uomini si trovavano e dover trascorrere anche più di un mese all’interno del faro e quando poi il tempo migliorava ed arrivava il tempo di andarsene, il guardiano poteva uscire solo calandosi giù per una specie di teleferica appesa ad una gru che sporgeva da sotto la lanterna, perché non esisteva nessun tipo di pontile che permettesse alla barca di attraccare allo scoglio. Questo è un esempio di come andava la vita in mezzo all’Oceano Atlantico, ma anche nel Mediterraneo potevano verificarsi situazioni di grave disagio. Negli anni ’30 del 1900 il guardiano del faro dell’isola di Cavoli, a sud Est della Sardegna, durante una terribile tempesta che aveva interrotto i collegamenti con la terraferma per giorni, si vide costretto ad andare a raccogliere i gabbiani sbattuti dal vento contro le rocce per dar da mangiare alla moglie e ai suoi dieci figli. Ancora recentemente, ed in fari lontani, è possibile per un guardiano rischiare la vita, come è successo durante lo Tsunami che il 26 Dicembre 2004 ha sconvolto il Sud Est asiatico. In India, ad Indira Point, il punto più meridionale del paese, l’onda ha spazzato via i guardiani del faro e le loro famiglie. Gli aiuti, giunti tre giorni dopo, non hanno trovato più nessuno, era rimasta solo la torre, anche se danneggiata, che era stata costruita nel 1972.
Via via che i fari vengono automatizzati la figura del guardiano diventa meno necessaria, e sembra destinata a sparire del tutto, anche se molti giovani che ambirebbero di poter fare questo mestiere, forse per l’alone di avventura e romanticismo, ormai solo un lontano ricordo, che circonda questi castelli in mezzo al mare, spesso collocati in luoghi remoti e selvaggi, ma di una bellezza mozzafiato.
L’automatizzazione dei fari avviene gradualmente, passando da una semi-automatizzazione, cioè dotando il faro di un sistema di emergenza che può risolvere i problemi più urgenti in modo automatico, fino ad arrivare all’automatizzazione totale, il faro, o un gruppo di fari, sono controllati a distanza via computer da un faro principale, e in questo caso periodica visita di una squadra di manutenzione diventerà l’unica presenza nel faro.
Ormai si sente dire da tempo che i fari non sono più un aiuto necessario alla navigazione, che sono superati, da quando la tecnologia ha introdotto sulle grandi navi le più sofisticate tecnologie elettroniche e satellitari, a partire dal Radar, il LORAN (Long Range Navigation) ed il GPS (Global Positioning System) eppure più di un capitano italiano, sia in servizio che a riposo racconta che, pur avendo comandato per molti anni navi di grosso tonnellaggio dotate di tutti i più moderni e sofisticati strumenti per la navigazione, ogni volta che, dopo una traversata atlantica, proveniente dagli Stati Uniti, avvistava il faro di Finistére tirava un sospiro di sollievo perché si sentiva arrivato a casa, anche se “casa” era poi molte miglia più a Sud, dopo lo Stretto di Gibilterra, nel Mediterraneo, ma avvistare quel faro voleva dire che il peggio era passato, che il pericolo era alle spalle, e che ormai il resto del viaggio sarebbe stato una passeggiata. Il faro non è solo uno strumento dotato di una segnalazione ottica luminosa situata in mezzo al mare per indicare un pericolo, è un guardiano della notte, è una sentinella del mare, il suo fascio di luce dice alla nave che passa entro la sua portata “Stai attento, vira e destra, o a sinistra, qui c’è un pericolo serio, gira alla larga”.
Il grande fascino dei fari è spesso dovuto alla loro collocazione, spesso sono situati in cima a scogliere isolate che sprofondano in mare per parecchi metri, o su piccole isole sperse in mezzo la nulla, e anche su pianori erbosi in riva la mare, facilmente raggiungibili con una bella passeggiata, oppure sono alte torri su basse spiagge sabbiose, alla cui ombra è bello nuotare o raccogliere conchiglie, o su uno scoglio in mezzo al mare, con il mare che si frange alla loro base con l’alta marea e le terribili ondate che lambiscono la loro lanterna durante una tempesta, o si trovano in mezzo ad un porto, fagocitati da una città che avanza, o si innalzano al di sopra di antiche fortezze una volta inaccessibili, costruite per difendere la città dai pirati o dai nemici che arrivavano dal mare. Per l’uomo di mare il faro è l’occhio amico che gli indica la strada sicura, per l’uomo comune il faro è un palazzo in mezzo al mare, una costruzione misteriosa innalzata da uomini d’ingegno, che può affrontare le più terribili tempeste, lambendo il mare con la sua luce.
Inoltre moltissimi fari hanno le loro storie da raccontare, vite vissute, naufragi, eroismi, alle volte anche truci storie di presenze che li abitano e che convivono con i guardiani. Forse ad alimentare queste leggende sono i rumori che rendono vivo un faro, il vento che sibila su per le scale a chiocciola, il ruggire delle onde ai suoi piedi o il tamburellare della pioggia sui vetri, tutte serve a far volare la fantasia. Anche la letteratura si è occupata dei fari da “Le phare au bout du monde” di Jules Verne, a “To the lighthouse” di Virginia Woolf e “The Guardian of the Light” di Sergio Bambarén, per citarne alcuni, poi la pittura, il cinema, la televisione, e persino la pubblicità. Non è raro trovare insegne di ristoranti che mostrano un faro, anche in zone lontane dal mare.
I fari sono monumenti antichi, molti risalgono ad epoche lontane, gli ultimi, i più recenti sono stati costruiti nei primi anni del 1900, molti fari sono stati abbandonati e lasciati andare in rovina ed è probabile che non ne verranno mai più costruiti dei nuovi. Essi sono monumenti storici che dovrebbero essere tramandati intatti alle generazioni future. Tuttavia i fari, sia pure automatizzati, computerizzati e privati dei loro guardiani, continueranno a vivere, a lanciare il loro fascio di luce nella notte, resteranno a sfidare il tempo e la storia , testimoni di un’epoca gloriosa della navigazione che non tornerà più.
Bibliografia :
01 ) A.A. – Fari del Mondo – Edizioni Del Prado 2000
02 ) Camillo Manfredini – Antonio Walter Pescara – Il Libro dei Fari Italiani - Ed. Mursia 1985
03) National Geographic Magazine – Maggio 2000
04) Jean Guichard, Ken Trethewey, – North Atlantic Lighthouses, Ed. Flammarion 2002
05) A. Mitchell – Historic American Lighthouses – Ed. ?
06) S. W. Crompton – The Lighthouse Book – Barnes & Nobles Book 1999
07) R. Christie – D. Hague – Lighthouses
08) J. Guichard – North Atlantic Lighthouses – Flammarion 2002
09) D. Charles – Lighthouses of Europe – Watson-Cuptill 2001
10 ) G. Guadalupi e G. Mesturini - Coralli e Deserto – Ed. White Star 2002
11 ) A. Terranova – Grattacieli – White Star 2003
12) K. Trethewey, M. Forand – The Lighthouse Encyclopaedia – Lighthouse Society of Great Britain - 2005 Edition
13) Annamaria “Lilla” Mariotti – Fari – ed. White Star 2005-2013
14) Antonino Terranova – Grattacieli – ed. White Star 2003
Camogli, 14 Marzo 2014